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Channel: L'Italo-Americano - Italian American bilingual news source - Società e cultura
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Il tempo sospeso del carnevale, tradizione secolare italiana

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Tempo sospeso del Carnevale, Tradizione italiana, Carnevale Festa
Maschera al Carnevale di Venezia
Barbara Minafra
February 14, 2014

 

Tempo di carnevale e di maschere. Dai dolci tipici alle sfilate in costume, tutt’Italia si tinge dei colori di Arlecchino, Pulcinella e Pantalone. In realtà queste tre maschere classiche della tradizione italiana sono state scalzate dagli eroi dei fumetti e dai personaggi moderni.
 
Ma per secoli hanno rappresentato uno spaccato importante in termini di cultura popolare, di storia e di folklore locale, un patrimonio che oggi viene usato a scopi turistici nelle rappresentazioni più eclatanti dei carri e delle parate allegoriche. 
 
Dal carnevale di Venezia famoso in tutto il mondo a quelli storici di Viareggio (Toscana) che ha origine nel 1873, di Fano (Marche) che si sarebbe svolto per la prima volta nel 1347, di Verona (Veneto) che risale al Medioevo, di Ivrea (Piemonte) che raggiunge il suo apice nella spettacolare Battaglia delle Arance o a quello di Putignano (Puglia) che quest’anno raggiunge l’edizione numero 620, senza poi dimenticare quelli di Acireale con i carri infiorati e di Sciacca in Sicilia, Castrovillari in Calabria, Tricarico in Basilicata, Frosinone nel Lazio che avrebbe addirittura origini precristiane o il carnevale ambrosiano di Milano. Si potrebbe scoprire buona parte dell’Italia solo seguendo le sfilate di questo periodo antecedente la Pasqua. 
 
Tutti i carnevali d’Italia portano in dote l’allegria, lo scherno,  l’ironia, la satira e sbeffeggiano, nella versione contemporanea, un’Italia di malaffari e malapolitica, nella speranza di un Paese prima o poi migliore.
 
Ma il “tempo sospeso” del carnevale è un po’ anche quello dei fumetti, dove la fantasia è lo specchio di quello che si vorrebbe nella vita quotidiana e che la realtà spesso nega. 
 
Ma “se puoi sognarlo, puoi farlo”. Con un pizzico di sano idealismo L’Italo Americano prende in prestito questa massima di Walt Disney a cui dedica il Focus, dove raccontiamo anche di un sogno italiano che si è realizzato. E nel C’era una volta diamo ai bambini dei nostri lettori lo spazio mensile di fantasia.

Da Patti a Bocelli passando per Sanremo: l’Italia del bel canto

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Italian del Bel Canto, Festival di San REmo, Andrea Bocelli, italian culture, italian heritage, italian american, italian news, italian traditions
Il teatro Ariston e' la storica location del Festival di Sanremo
Barbara Minafra
February 20, 2014

 

La canzone italiana è servita. Anche se non passa tutta da lì, il palcoscenico più importante d’Italia apre il sipario e accende le luci della ribalta.
 
Il Festival di Sanremo, giunto alla sua 64° edizione, è pronto a sfornare i nuovi protagonisti del mercato musicale nazionalpopolare che animeranno le classifiche di vendita 2014. Ma non dimenticherà di volgere uno sguardo al passato prossimo, chiedendo ai concorrenti di omaggiare la tradizione cantautorale italiana interpretando brani di grandi autori del nostro Paese.
 
L’Italo Americano, invece, torna molto più indietro nel tempo. Ricorda personaggi ormai dimenticati che però fecero epoca, moda, società, salotti, gossip e soprattutto portarono talento e cultura, rendendo l’Italia e l’italianità sinonimo di bel canto, di culla operistica. 
 
Se il tenore Enrico Caruso è rimasto nella memoria collettiva, sono nomi da intenditori quelli di Adelina Patti e Luisa Tetrazzini. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, in un’epoca profondamente segnata dai flussi migratori in America, quando  bastimenti carichi di sognatori a caccia di una vita migliore oltre-oceano sbarcavano a migliaia, lasciandosi alle spalle un po’ tutte le regioni italiane (tra loro c’è chi troverà anche il mito, come il divo dei divi, Rodolfo Valentino), le due soprano di origini italiane scrissero la storia operistica della California. 
 
A San Francisco non registrarono solo i tutto esaurito per settimane al Teatro Golden Gate, tra fan in delirio dietro alle loro carrozze e bagarinaggio dei biglietti dei loro spettacoli. Lì fecero “la” musica e la grande lirica italiana. 
 
Furono le voci di un’epoca. Basti ricordare che Adelina Patti, nel 1862 si esibì alla Casa Bianca cantando “Home! Sweet Home!”, commuovendo Abramo Lincoln e la moglie. 
Oggi sono un patrimonio da riscoprire, aspettando, anche da quel Sanremo che lanciò Andrea Bocelli, amatissimo negli Usa, i prossimi talenti musicali.

Alla conquista di un cambiamento che renda l’Italia sempre più rosa

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Cambiamento Italia, Repubblica Italiana, italian culture, italian heritage, italian american, italian news, italian traditions
Arianna Fontana ha vinto tre delle otto medaglie dell'Italia alle Olimpiadi di Sochi
Barbara Minafra
February 27, 2014

 

Dopo il primo ministro orgogliosamente nero della storia della Repubblica italiana, per la prima volta c’è un governo al 50% composto da donne. Nell’esecutivo anche una futura mamma: ha giurato fedeltà alla Costituzione con il pancione all’ottavo mese. 
 
Se vuole essere un segnale di cambiamento, un invito alle pari opportunità in un Paese dove sono ancora estremamente alti i licenziamenti e le non assunzioni causa gravidanza e altrettanto inaccettabilmente dispari gli stipendi per cui, a parità di capacità e incarichi, le donne sono penalizzate e prendono meno, senza dimenticare che sono sempre troppo poche le donne che raggiungono posizioni di vertice nelle varie professioni (tanto da chiedere quote rosa), lo sia.
 
Non solo. Diventi, anche questa, una priorità di governo e una riforma da mettere in atto subito. 
L'Istituto Nazionale di Statistica per la prima volta ha diffuso le stime sulla capacità di generare reddito dei cittadini. Detto altrimenti, il "capitale umano" di ogni italiano vale 342mila euro. Ma anche in questo caso le differenze tra i due sessi ci sono e pesano: alle italiane è stato attribuito un valore di 231 mila euro, il 49% meno rispetto agli uomini. 
 
Ma non è eticamente inaccettabile dire che le donne valgono la metà? Il differenziale si spiega proprio con le differenze di remunerazione tra uomini e donne, col minor numero di signore che lavorano e col minor numero di anni lavorati dalle donne nell'arco della vita. Senza contare che l’impegno domestico non vale.
 
Se viceversa si tenesse presente il lavoro svolto a casa, le donne produrrebbero un valore procapite di 431mila euro: ben il 12,3% in più rispetto ai maschi. La statistica, in realtà, si è dimenticata di fare un’altra somma ovvero quella che riguarda le tante donne che fanno le due cose: oltre alla carriera si occupano di casa e figli. 
 
Il divario c’è ma anche dalle Olimpiadi  arrivano importanti segnali “rosa”: su 8 medaglie è stata Arianna Fontana a portarne a casa tre.

Ballerini di cancan, supereroi e bucanieri. Sulle acque del Canal Grande sfila la “Regata de Carneval”

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Canal Grande, “Regata de Carneval”, Venezia, italian culture, italian heritage, italian american, italian news, italian traditions
(Ph. Luca Ferrari)
L’arrivo dei regatanti a San Marcuola
Luca Ferrari
March 4, 2014

 

Teschi pirata. Incensi psichedelici. Spilloni “Westwoodiani”. Cuffie colorate da vecchie e magiche signore. Lugubri pallori immortali. Giarrettiere sbarcate dal Moulin Rouge. Gonnellini hawaiani. Bandane rosse e maschere made in Gotham City. L’antica Repubblica Marinara racconta una nuova storia di Carnevale popolano. Lì,  nel suo elemento naturale. L’acqua del Canal Grande.  
 
Venezia, seconda domenica di Carnevale. Mentre piazza San Marco viene invasa da decine di migliaia di turisti per assistere al tradizionale Volo dell’Angelo, qualche sestiere più in là, a Cannaregio, ci si sta preparando per la XXIV edizione della “Regata de Carneval”, un evento organizzato  dall’associazione Settemari. Nove equipaggi uomo-donna si sfidano sulla più regale delle vie acquee veneziane a bordo di una mascareta, imbarcazione leggera usata sia per la pesca sia per le competizioni di remo.
  Deborah Scarpa e Giuliano Pagan in gonnellino hula e corona floreale 
 
Alle 9 del mattino in campo San Marcuola, di fronte all’omonima chiesa (poco distante dalla stazione Santa Lucia), i protagonisti sono già mascherati e pronti alla sfida con i loro “cavalli” addobbati in stile con i rispettivi costumi. Insolitamente rispetto alle classiche regate, nella suddetta non basta tagliare il traguardo per primi per vincere. Il costume conta di più. Ma è l’unione dei due elementi (punti voga e punti maschera) a decretare il dominatore della classifica generale. 
 
Sul nastro di partenza si posizionano Deborah Scarpa (Remiera Pellestrina) e Giuliano Pagan (Usr Francescana). Emanuela Barbiero e Marco Gallo (V. V. Mestre). Gabriella Lazzari e Maurizio Quintavalle (Vogaepara). Jane Caporal (Associazione Settemari) e Gianni Colombo (Canottieri Bucintoro).  Luisa Conventi (Associazione Settemari) e Marco Franzato (G.S. Artigiani). Marina Busetto e Gianni Costantini (G.S. 3 Archi). Marzia Bonini (Canottieri Giudecca) e Cristiano Peroni (Gradovoga). Sibylle Lohausen e Roberto Fagarazzi (Canottieri Cannaregio). Titalica Nicolini e Mario Rossetti (V. V. Mestre).
 
Quando non sono ancora le ore 10, le mascarete partono con destinazione San Giustinian, a poca distanza da piazza San Marco e Palazzo Ducale. 
 Foto di gruppo dei regatanti della “Regata de Carnerval” 
 
Comincia la gara. Il tracciato passa per i punti principali dell’antica Repubblica Marinara, incluso il celebre ponte di Ri ‘Alto, quindi il palazzo di Ca’ Vendramin Calergi sede del Casinò di Venezia, e subito dopo l’arrivo a San Marcuola.
 
La gara scorre via veloce. I giudici nel frattempo hanno già preso appunti sui costumi. A raccogliere il massimo punteggio complessivo e dunque aggiudicandosi la 24° edizione della “Regata de Carneval”, con tanto di bandiera rossa, sono i due “ballerini di cancan” Gabriella e Maurizio. “La ragione per cui ha vinto è questa…” viene però scherzosamente specificato, e il buon Mauri si alza la gonna mostrando il fondoschiena con tanto di mutande rosse con pizzo e calze a rete nere.
 
Secondi classificati con bandiera bianca conquistata, i dominatori della regata effettiva, gli “hawaiani” Deborah e Giuliano in gonnellino hula, corona floreale e parruccona. Vincono invece il vessillo verde e dunque si piazzano in terza posizione, i punk Luisa e Marco, con quest’ultimo agghindatosi con cresta posticcia, lucchetto gigante e anello con catena al naso. Gli ultimi a conquistare una bandiera (di colore blu) sono Roberto e Sibylle, il cui travestimento da Nosferatu e sposa sanguinaria viene considerato il migliore dell’edizione 2014.
 
Le altre cinque posizioni vengono occupate in ordine dai corsari Gianni e Marina, in sesta i pirati Cristiano e Marzia, in settima a pari merito le due coppie di befane Gianni/Jane e Batman-Mario/Catwoman/Titalica. Fanalino di coda, gli hippie Marco ed Emanuela.
 
Inizia la festa. Il sole scalda. Sul tavolo arriva una grossa pi-gnatta con pasta e fasioi (fagioli). L’odore permea tutto campo San Marcuola. I bambini lanciano coriandoli ovunque. Cagnolini si rincorrono. Qualche turista allieta l’atmosfera suonando la fisarmonica subito supportato da qualche improvvisata performance canora in veneziano. I vogatori si rifocillano e si concedono ai flash.
 
A dispetto dell’ora non proprio da pranzo ma più da brunch (ore 11), non c’è nessuno che non abbia il piatto traboccante di pasta e fagioli. Questa però è la festa di carnevale, e dunque non possono mancare i dolci per eccellenza: le frittelle. Ci sono le classiche veneziane e quelle ripiene di crema. Che la festa continui. 

Nell’orgoglio di un film la trascuratezza di un Paese

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Toni Servillo in La Grande Bellezza
Barbara Minafra
March 6, 2014

 

La Grande Bellezza, come dice il suo regista, racconta un’Italia di bellezza trascurata. Il Paese che più di ogni altro raccoglie un patrimonio artistico, architettonico, paesaggistico, storico e monumentale unico al mondo, continua tristemente a non valorizzare i suoi tesori.
 
A Pompei c’è stato l’ennesimo crollo causato più da un’incuria recidiva e irresponsabile, dall’incapacità di prendersi cura di una eredità incommensurabile, da una burocrazia lentissima e macchinosa, che dalla pioggia. La lezione “morale” che l’Unesco vorrebbe dare all’Italia cancellando il sito archeologico dalla lista dei patrimoni dell’umanità, finora non ha avuto successo. Ma in fondo, se volessimo veramente bene a questo nostro Belpaese, ammetteremmo di meritarcelo.
 
Nel film di Sorrentino si coglie questo contrasto tra una vita frivola di una società distratta e il prepotente scenario di incantevole bellezza che Roma e l’Italia posseggono. Se i nostri occhi non lo vedono, dovremmo rendercene conto attraverso quelli di milioni di turisti che ogni anno si muovono da mezzo mondo per visitare Venezia, Firenze, Napoli e le altre centinaia di città d’arte. 
 
Nel 2013 ci sono stati ben 73 miliardi di euro di spesa turistica. Una somma immensa se si considera che è frutto di iniziative private, estemporanee, non coordinate, non centralizzate, non sostenute da politiche mirate. 
 
Se ci fosse una regia culturale e turistica, in questo Paese, quante volte potrebbe essere risanato il debito pubblico? Quante volte l’Italia sarebbe uscita dalla crisi che ha portato la disoccupazione a livelli insostenibili per il sistema della spesa sociale? Quanti posti di lavoro sarebbero già stati creati? Quante imprese riaprirebbero dopo la lenta moria?
 
Quante opere d’arte e monumenti verrebbero ristrutturati e trasformati in nuovi poli d’attrazione invece di subire crolli strutturali, invece di restare capolavori chiusi negli scantinati, invece di essere trafugati senza che nessuno si accorga perchè abbandonati in archivi polverosi e dimenticati?
 

Dalle origini religiose del carnevale alle tipologie regionali delle maschere

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Origini religiose carnevale, maschere regionali, italian culture, italian heritage, italian american, italian news, italian traditions
Tutte le maschere della commedia dell'arte
Elisa Cuozzo
March 8, 2014

 

L’Italia si colora di coriandoli e stelle filanti, intona divertenti filastrocche, indossa abiti variopinti, maschere allegre, sfilano e ballano su carri allegorici. È il Carnevale con la sua atmosfera di gioia, buonumore e libertà che percorre la penisola, da nord a sud.
 
LE ORIGINI - Festa celebrata nei Paesi di tradizione cattolica, il termine Carnevale deriva dal latino “carnem levare” (“eliminare la carne”) e si riferisce all’antico banchetto che si teneva il martedì grasso, ultimo giorno di festa seguito dal periodo di astinenza e di digiuno della Quaresima.
 
Al di là del suo significato religioso, le modalità di celebrazione risalgono a tempi più antichi. Durante le feste dionisiache nell’antica Grecia o i Saturnali nell’antica Roma, i ruoli e le gerarchie sociali venivano stravolti e capovolti con il trionfo del caos, dello scherzo e della dissolutezza. Il povero diveniva ricco, lo schiavo padrone in uno stravolgimento simbolico che mirava a ricostituire dal caos un ordine nuovo. 
Lo stesso rovesciamento della società avviene oggi tramite l’elemento distintivo e caratteristico della maschera che, una volta indossata, ha il potere di nascondere la propria identità e di assumere le sembianze di qualcun altro giustificando caratteri e azioni bizzarre, al di fuori dell’ordinario. 
  La maschera piemontese Gianduja
 
L’originalità e la briosità della festa carnevalesca è proprio in questo mascheramento che, nel corso degli anni, si è rinnovato attingendo a fumetti, film e cartoni animati (da Biancaneve a Topolino, da Tom & Jerry a Titti e Gatto Silvestro, da Zorro a Batman, Superman e Spiderman) e ispirandosi a personaggi del mondo dello spettacolo e della politica. 
 
MASCHERE REGIONALI - Scavando nel passato della cultura italiana, riscopriamo le origini delle maschere più classiche e popolari di servitori, contadini, mercanti, soldati e dottori che, indossate da attori, hanno preso vita nella Commedia dell’Arte tra XVI e XVIII secolo, per poi essere esportate in tutta Europa. Ancora una volta l’Italia si distingue per una tradizione secolare che caratterizza il proprio Carnevale, le cui maschere originarie, sedimentate nel tempo, continuano a costituire costumi e caratteri peculiari e unici alla cui nascita hanno contribuito in modo diverso tutte le regioni.
 
PIEMONTE: Gianduja - Dal Piemonte viene Gianduja, maschera popolare di origini astigiane nata nel 1798, il cui nome deriva dall’espressione piemontese “Gioann dla doja” (“Giovanni del boccale”). Originariamente chiamato Gerolamo, il personaggio fu ribattezzato all’inizio dell’800 per evitare allusioni politiche al nome di Gerolamo Bonaparte, parente dell’imperatore. Si distingue per il suo cappello a tricorno, la parrucca con un codino, un abito di panno color marrone bordato di rosso, un panciotto giallo e un fiocco verde oliva sul collo. 
 
Distratto, allegro e amante del buon vino e della buona tavola, è un galantuomo, fedele alla sua compagna Giacometta, dotato di buon senso e coraggio, incline al bene e impegnato in opere di carità. Nella settimana che precede la Quaresima visita ospizi, ricoveri e ospedali per bambini distribuendo caramelle avvolte in un cartoccio esagonale con impresso il suo profilo caratterizzato dal tricorno delle armate piemontesi ottocentesche alle quali si deve l’Unità d’Italia. Dal suo nome derivano le specialità torinesi della cioccolata di tipo gianduia e il relativo cioccolatino gianduiotto.
  Arlecchino 
 
LOMBARDIA: Meneghin, Arlecchino, Brighella e Gioppino - In Lombardia nasce la maschera milanese di Meneghino (in milanese Meneghin), diminutivo del nome Domenico in riferimento al servo che i nobili meno facoltosi potevano permettersi di assumere solo la domenica. Meneghino incarna uno stereotipo di servitore rozzo ma generoso e di buon senso. Si schiera al fianco dei suoi simili, deride i difetti degli aristocratici. Privo di maschera e senza trucco, con il suo cappello a tre punte e la parrucca con codino alla francese, indossa una lunga giacca di velluto, calzoni corti e calze a righe rosse e bianche. 
 
Bergamo dà i natali a due famosi antagonisti: Arlecchino e Brighella. Caratterizzato dai suoi cento colori, Arlecchino si afferma nella Commedia dell’Arte del XVI secolo e nasce dalla contaminazione tra lo Zanni bergamasco (versione veneta del nome Gianni molto diffuso tra i servitori dei nobili e dei ricchi mercanti veneziani) e i diabolici personaggi farseschi della tradizione popolare francese. A causa della sua povertà, non può permettersi un abito. Il suo costume è così colorato perchè le altre maschere, sue amiche, gli regalarono a carnevale un pezzo di stoffa avanzata dalle loro vesti cosicché la madre potesse cucirgliene uno. Oggi il personaggio conserva la maschera nera, il berretto bianco, una spatola di legno e, al posto dell’abito rappezzato, un vestito colorato con bande a colori alterne ben disposte. È pigro, stravagante, scapestrato, furbo e pieno di coraggio. È innamorato della serva veneziana Colombina. Le sue doti caratteristiche sono l’agilità, la vivacità e la battuta pronta. 
 
L’antagonista Brighella, il cui nome ne indica il carattere attaccabrighe e imbroglione, riveste il ruolo di cuoco, cameriere e capo servitù, al quale piace esercitare il suo potere sui semplici servitori. Scaltro e astuto, ossequioso con i potenti e insolente con i deboli, si vanta di indossare la “livrea”, simbolo dell’appartenenza al padrone: calzoni larghi e giacca bianchi, listati di verde, un mantello bianco con strisce verdi, un berretto a sbuffo e la mezza maschera sul viso.
 
Tra le province di Bergamo e Brescia, compare tra fine ‘700 e inizio ’800 anche il furbo contadino Gioppino. Innamoratissimo della moglie Margì, è rude e rozzo, ma di buon cuore. Porta con sé un bastone che usa per difendere poveri e oppressi. Buffo e simpatico, ha una risata contagiosa; ama il cibo e il buon vino. Indossa un grosso panno verde orlato di rosso, pantaloni scuri da contadino e un cappello rotondo. La sua principale caratteristica fisica sono tre grossi gozzi, da lui chiamati le sue granate o coralli, che ostenta non come un difetto fisico, ma come veri e propri gioielli.  
 
VENETO: Pantalone e Colombina - Venezia, la città del carnevale italiano per eccellenza, ci regala la maschera di Pantalone, il tipico mercante veneziano: un vecchio brontolone, testardo, avaro, sempre nervoso e “rompiscatole” che crede solo nel denaro e nel commercio. Molto spesso sputa sentenze e si inserisce, non invitato, in dispute che non gli competono. Veste sempre in modo semplice: pantofole, camicione e calzamaglia rossi, un colletto bianco e un mantello nero, in testa una cuffia aderente e una maschera sul volto. Sua figlia Rosaura, altra tipica maschera locale, è una giovane ragazza innamorata. Le piace chiacchierare con la cameriera Colombina, tramite la quale spedisce lettere al fidanzato Florindo. Il suo abito è blu decorato con fiocchi e nastri. 
 
Colombina è l’unica maschera femminile ad imporsi con il suo forte carattere tra tanti personaggi maschili. Già presente nella commedia di Plauto la figura della furba ancella adulatrice, il nome di Colombina compare per la prima volta nel ‘500 nel ruolo della servetta dedita ai sotterfugi domestici e amorosi della padrona. È l’innamorata di Arlecchino che, nonostante nelle rappresentazioni assuma i nomi diversi di Betta, Franceschina, Diamantina, Marinetta, Corallina, Violetta e Arlecchina, è sempre la stessa serva dalla parlata veneziana, con un vestito a fiori bianchi e blu, vivace, allegra, bugiarda, maliziosa, chiacchierina, furba,fedele alla sua padrona.
 
 

Il segreto di Pulcinella: la commedia dell’arte popolata da Dottor Balanzone, Burlamacco e Rugantino

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l segreto di Pulcinella, Commedia dell'Arte, Dottor Balanzone, Burlamacco e Rugantino
I personaggi della Commedia dell'Arte
Elisa Cuozzo
March 9, 2014

 

LIGURIA, Capitan Spaventa - Dalla Liguria giunge Capitan Spaventa o Capitan Fracassa: un capitano sognatore, colto e di buon senso. Ha un vestito a strisce gialle e arancioni, un cappello abbellito da piume colorate, ricchi stivali e una lunga spada che trascina facendo rumore. È uno spadaccino che, più che la spada, usa la lingua: discute molto ed è solito prendere in giro gli ufficiali del tempo.

  Balanzone, la maschera emiliana sapientona
 
EMILIA: Dottor Balanzone, Fagiolino e Sandrone - In Emilia Romagna nasce il bolognese Dottor Balanzone, appartenente alla schiera dei “vecchi” della commedia dell’arte. Il suo nome deriva da “balanza” (“bilancia”), allegoria della Giustizia, ed è noto per il suo carattere presuntuoso e sapientone.
Elargisce consigli e pareri di nessun valore, e cerca scuse per iniziare discorsi dotti, infarciti di citazioni di un latino maccheronico, parolone storpiate e senza senso. Sul volto ha lunghi baffi e indossa una maschera che ricopre solo sopracciglia, occhi e naso. Il suo abito è la tipica divisa dei professori dello studio di Bologna: toga nera, colletto e polsini bianchi, gran cappello, giubba e mantello.
 
Romagnolo è anche Fagiolino Fanfani, il cui nome sembra derivare da un bruco, che vive sui faggi e che ha nelle zampe posteriori due appendici che sembrano due bastoncini con cui picchia gli altri bruchi. Armato di bastone, Fagiolino è pronto a caricare di randellate chi se lo merita. La sua figura è quella di un giovane bolognese intelligente, forte, pieno di salute, chiacchierone ed ignorante, anche se si crede molto istruito. Ha un neo sulla guancia sinistra, un viso paffuto e sorridente. Indossa sempre un berretto da notte, un grosso fiocco, una corta giacca e calze bianche a righe rosse.
 
Dalla Modena del ‘700 arriva Sandrone, un contadino ignorante ma furbo, scaltro e pieno di buon senso in rappresentanza del popolo più umile e maltrattato, che escogita ogni stratagemma per sbarcare il lunario. Veste la foggia dei popolani dell’epoca: giacca di velluto a coste marrone, pantaloni al ginocchio, calze a righe bianche e rosse, gilet a fiori e robusti scarponi da contadino. Indossa una parrucca con capelli piuttosto lunghi, coperti in parte da una specie di cuffia da notte di lana bianca. Ha una moglie, Pulonia, e un figlio. L’intera famiglia rappresenta da oltre un secolo il caratteristico carnevale modenese.
  Il laziale Rugantino, spaccone  
 
TOSCANA: Stenterello e Burlamacco - Da Firenze, Stenterello sembra essere l’unica maschera del Carnevale e del Teatro fiorentino e l’ultima della Commedia dell’Arte antica. È il tipico popolano fiorentino chiacchierone, pauroso ed impulsivo, che, pur oppresso da problemi e avversità, è sempre così ottimista da ridere, scherzare ed affrontare la vita. È anche saggio e ingegnoso; ha sempre la risposta pronta con battute pungenti espresse in un brioso dialetto fiorentino. La sua comicità deriva dal contrasto tra la sua prontezza a schierarsi dalla parte del più debole e la sua tremarella. Con un naso prominente, indossa abiti allegri e frizzanti che ricordano il settecento: un tricorno nero, una giacca o giubba a falde di color azzurro chiaro o blu, sopra una sottoveste sgargiante, panciotto giallo canarino, calzoni corti, una parrucca bianca con codino all'insù. 
 
Ancora in Toscana ha origine Burlamacco, la maschera ufficiale del carnevale di Viareggio, considerata l’ultima maschera italiana, creata nel 1930 dal pittore futurista e grafico viareggino Umberto Bonetti. Il nome richiama alla “burla” carnevalesca e, secondo l’ipotesi più accreditata, deriva dallo pseudonimo che Bonetti usava nelle sue opere, oppure da Francesco Burlamacchi, uomo politico della Repubblica di Lucca. Il cappello indossato dalla maschera è quello degli ambasciatori lucchesi e i colori di Burlamacco richiamano quelli del comune di Lucca. Con la faccia truccata da clown, deriva da un insieme delle caratteristiche delle altre maschere italiane: una tuta a scacchi colorati suggerita dall’abito di Arlecchino, un pompon di cipria ripreso dal camicione di Pierrot, un colletto ampio e bianco rubato a Capitan Spaventa, un copricapo rosso come quello di Rugantino, un mantello nero e svolazzante come quello indossato da Balanzone.  
 
 LAZIO: Meo Patacca e Rugantino - Da Roma giungono le maschere dei bulli spacconi e spavaldi di Trastevere: Meo Patacca e Rugantino. 
 
Calzoni stretti al ginocchio, una giacca di velluto, una sciarpa colorata per cintura nella quale è nascosto un pugnale, una retina che raccoglie i capelli dalla quale sporge il ciuffo caratteristico. Questo è Meo Patacca, il tipico bullo romano, sfrontato, attaccabrighe, tiratore di fionda, facile alle risse, ma generoso. Il suo nome deriva dalla “patacca”, il soldo che costituiva la paga del soldato, e la sua notorietà è dovuta al poema in dialetto romanesco del poeta e commediografo Giuseppe Berneri: “Meo Patacca ovvero Roma in feste ne Trionfi di Vienna”. 
 
Un altro bullo romano, strafottente e arrogante, ma in fondo buono e amabile, è Rugantino, il cui nome deriva dalla parola romanesca “ruganza” (“arroganza”). È un provocatore dalla lingua lunga, ma che non fa male a nessuno, duro a parole, ma pavido nei fatti. Il primo Rugantino doveva essere la caricatura di un gendarme, che veniva identificato con il capo dei briganti. In seguito indossa i panni civili del bullo di quartiere. La sua maschera lo vede, quindi, vestito in due modi: da sgherro in modo appariscente, vestito di rosso con il cappello a due punte, o da povero popolano pieno di baldanza ma con calzoncini logori, fascia intorno alla vita, camicia con casacca e fazzoletto al collo.   
 Il celebre personaggio campano di Pulcinella 
 
CAMPANIA: Pulcinella e Tartaglia - In Campania regna la più antica maschera del nostro Paese e una tra le più famose e conosciute in tutto il mondo: Pulcinella (in lingua locale: Pullecenella), creata a Napoli nella seconda metà del ‘500. Le sue origini, tuttavia, sembrano più antiche. Secondo un’ipotesi discende da “Pulcinello”, un piccolo pulcino dal naso adunco; alcuni lo fanno derivare da Puccio d’Aniello, un contadino di Acerra che nel ‘600 si unì come buffone ad una compagnia di girovaghi di passaggio nel paese.
 
Altri lo riconducono alla fine del IV secolo a.C., al personaggio del servo Maccus nelle popolari Atellanae romane, vicino anche per aspetto: naso lungo, faccia bitorzoluta, guance grosse e ventre prominente, camicia larga e bianca. Altri lo fanno risalire ad un’altra maschera delle Fabulae Atellanae: Kikirrus, il cui nome richiama il verso del gallo, che ricorda più da vicino la maschera di Pulcinella. Fin dalla sua nascita Pulcinella rappresenta virtù e vizi del tipico napoletano che, cosciente dei problemi in cui si trova, riesce sempre ad uscirne con il sorriso, prendendosi gioco dei potenti pubblicamente, svelandone tutti i retroscena. 
 
Pulcinella non ha segreti, è di poche parole, ma quando parla è secco e mordente. I suoi movimenti sono sempre lenti e goffi. Conosciuto in tutto il mondo, il personaggio arriva ad assorbire le caratteristiche di altri Paesi: in Inghilterra è Punch, corsaro e donnaiolo; in Germania è Pulzinella e Ilanswurst (“Giovanni Salsiccia”); in Olanda è Tonelgeek; in Spagna è Don Christoval Polichinela. 
 
Da Napoli giunge anche la maschera di Tartaglia, affine a quella del dottore dalla quale deriva. Goffo e corpulento, il nome deriva dalle balbuzie da cui è afflitto. La sua comicità è legata alla sua forte miopia. Il costume  costituito in origine di un abito e di un mantello verdi a strisce gialle, di un ampio collare bianco e occhiali verdi, varia in seguito nei colori e negli ornamenti.
 
SICILIA: Beppe Nappa - Da Messina arriva Beppe Nappa, maschera simbolo del carnevale di Sciacca (Agrigento), il cui nome deriva da “nappa”, “toppa” in siciliano. È beffardo, pigro, capace di insospettabili salti e danze acrobatiche, goloso e insaziabile. Nella commedia dell’arte la sua maschera rappresentava un servitore con un abito ampio di colore azzurro e un berretto di feltro bianco o grigio sopra una calotta bianca. 
 
FRANCESISMO - In ultimo, anche se il suo nome è un francesismo, abbiamo Pierrot, una maschera italiana che nasce alla fine del ‘500, successivamente esportata in Francia e in Germania. L’utilizzo della maschera di fronte a nuovi pubblici e corti europei portò alle modifiche del suo carattere: il Pierrot francese perde le caratteristiche di astuzia e doppiezza, proprie del servitore, per diventare il triste mimo innamorato della luna. Il suo abito è ampio e bianco con bottoni neri e un piccolo cappello nero che contrasta con il volto dipinto di bianco. 

 

Nel Comasco la fiera della ristorazione fa venire l’acquolina in bocca con i sapori tipici

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La fiera della ristorazione, Comasco, italian culture, italian heritage, italian american, italian news, italian traditions
Per i cuochi Ristoexpo può diventare un trampolino di lancio professionale
Enrica Corselli
March 18, 2014

 

Cannoli siciliani, olio della Basilicata, ricotta affumicata della Val Camonica, marmellate dell’Alto Adige, piadine romagnole: ecco cosa ha esposto la 17° edizione di RistorExpo al centro espositivo Lariofiere di Erba, in provincia di Como. 
 
Oltre cento stand espositivi, dalla degustazione di prodotti tipici regionali, ai macchinari per gli addetti ai lavori fino alla WineExpo, padiglione interamente dedicato ai vini. 
 Degustazione di prodotti ed esposizione: 22mila visitatori per la 17° edizione nel centro espositivo di Lariofiere, nel Comasco 
 
“Il pubblico si informa – dice Antonio Presta, produttore di olio – e rispetto agli anni passati ho notato un’inversione di tendenza: partecipano più privati e meno operatori”. Ma rappresenta comunque una grande opportunità. “Arriviamo dalla Calabria – continua – e questa di Erba è una bella fiera, è il quattordicesimo anno che partecipiamo; si presentano prodotti nuovi e si riesce sempre ad allacciare contatti importanti”. Anche Stefano Allera di Monza Brianza è un veterano della manifestazione gastronomica. “Sono sedici anni che veniamo – dice - e anche se in questi due giorni ho notato meno affluenza rispetto alle edizioni passate, ma nel nostro campo, quello della birra, c’è molto interesse”. 
 
In questa edizione di RistoExpo non sono mancate di certo le particolarità. “Produciamo vino medievale – dice Walter Tesoriere – e sicuramente il prodotto desta molta curiosità e tra l’altro, ha vinto il premio come miglior vino da cioccolato”. Non solo. “Nel nostro agriturismo – continua – organizziamo anche cene storiche con prodotti naturali e di qualità. È proprio vero che in cibo veritas”. 
 
C’è anche chi, come Elke Ott, arriva dalla Germania per partecipare alla fiera: “Fellbach, la nostra città – dice – è gemellata con Erba e i vostri prodotti regionali, come il vino, sono molto ben visti all’estero, questa è una zona molto produttiva”. 
 
“Oggi conta molto il locale – dice Claudia Crippa, presidente del Consorzio Terre Lariane – e questo interessa molto sia il pubblico sia gli operatori. Il territorio è ben rappresentato e spero si continui su questa strada al fine di diventare veri protagonisti”. Ma cosa pensano gli chef? “Per noi cuochi - dice Simone Guglie-metti, chef di Stresa, medaglia d’oro alle Olimpiadi di cucina di Ertfurt e ai mondiali di Basilea del 2013 – questa è una bella manifestazione, un trampolino di lancio per nuovi talenti”. 
 
Sulla stessa linea d’onda anche Andrea Dotti, chef  del ristorante Momi e Riva Stendhal di Blevio: “È davvero un’ottima occasione di scambio di idee e valorizzazione del nostro territorio che, ultimamente, è stato messo sotto torchio da chi lo reputa povero e privo di risorse”.
 
La rassegna si è chiusa con 22mila visitatori, il che significa un aumento del 10%. La soddisfazione è grande per il presidente di Lariofiere Giovanni Ciceri, che esclama: “È un bilancio più che positivo. Sia per la risposta del pubblico, sia per la qualità degli stand”.  

Il cambiamento che rigenera: ecco il nuovo L’Italo-Americano

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Il cambiamento che rigenera, il nuovo L’Italo Americano, italian culture, italian heritage, italian american, italian news, italian traditions
Il rito del falo' nel giorno della festa di San Giuseppe
Barbara Minafra
March 20, 2014

 

Nel fare gli auguri a tutti i papà, la cui ricorrenza cade in questa settimana, va ricordato che combacia con la festa cattolica di San Giuseppe. In molte località italiane viene celebrata con il rito serale del falò, che bruciando la legna vecchia segna il passaggio dall'inverno alla primavera. 
 
Gli antichi vedevano la luce del sole diminuire e il buio aumentare. Per esorcizzare l'avvenimento accendevano grandi falò serali, rituale magico per suggerire al sole di donare nuova luce, calore e quindi vita alla terra. L’usanza ha probabilmente origini pre-cristiane e simboleggia l'anno vecchio che è terminato ed è pronto per nascere nuovamente. 
 
Mentre ci prepariamo a lasciarci alle spalle la stagione fredda e a “rinascere”, questa millenaria tradizione ci insegna l’importanza del rito di passaggio, quella fase in cui non si è più quelli di prima, ma ancora deve sbocciare quello che è stato seminato.
 
Se questo concetto è rimasto anche nel nostro 25 dicembre,  inizialmente celebrato come il giorno della rinascita del sole e della natura dopo il solstizio d’inverno, la lezione da trarre è il valore del cambiamento.
 
Ogni emigrante lascia il vecchio per il nuovo e nella fase di transizione, quando non è più solo italiano e non è ancora americano, ma porta i segni del viaggio da una dimensione all’altra, è commistione tra i due mondi. 
 
Il rito del passaggio nell’esperienza personale può essere declinato in tanti modi, ma quello che fa la differenza, a livello sociale, è la consapevolezza di vivere a cavallo di due identità, beneficiando di entrambe, pronti a trovare una dimensione rigenerata. 
 
Anche L’Italo-Americano sta vivendo questo cambiamento es-senziale: dando precedenza alla sezione inglese da questa edizione, sta cercando di avvicinarsi alle nuove generazioni di italo-americani che oggi sono sempre più americane ma non vogliono rinunciare alla propria radice italiana, perchè in questa commistione sta la ricchezza identitaria di un settimanale al servizio di questa comunità da 106 anni.

L’avanguardia riscopre i suoi ‘Fundamentals’ alla Biennale di Venezia

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Padiglione centrale, modello in progress (Ph. Rem Koolhaas)
Luca Ferrari
March 26, 2014

 

Sarà la costante di un mondo che commette gli stessi errori. Sarà la volontà di un altro mondo a voler comprendere meglio cosa sia accaduto per costruire un futuro migliore e difendere il presente. Sarà anche tutto questo ma la 14^ Mostra Internazionale di Architettura di Venezia (7 giugno – 23 novembre 2014) si apre negli infiniti spazi della storia architettonica di più elementi, epoche ed espressioni. E dal suo nome, Fundamentals, emerge l’importanza di ogni singolo tassello della nostra storia. 
 
A dirigere l’edizione 2014 della Mostra è stato chiamato l’olandese Rem Koolhaas, cofondatore nel 1975 di Oma con cui ha realizzato progetti soprattutto in Europa ma anche in giro per il mondo tra cui Marocco, Giappone e Stati Uniti. Insolitamente alla stragrande maggioranza dei suoi colleghi, l’architetto originario di Rotterdam non viene solamente dal mondo dell’arte. Nel suo background culturale e lavorativo c’è stato il grande amore per la scrittura, facendo lo sceneggiatore e il giornalista.
 
La 14^ Biennale di Architettura. Tre eventi in uno, o come li ha definiti lo stesso curatore, “tre manifestazioni complementari”: “Absorbing Modernity 1914-2014, Elements of Architecture e Monditalia”. 
 
Come sempre i padiglioni stranieri troveranno casa non solo negli storici spazi dei Giardini e all’Arsenale, ma anche nel centro storico di Venezia. Una città dunque che unirà la sua inconfondibile arte antica con le impronte moderne di tutto il mondo. Non unità disgiunte, ma luoghi che si aprono all’interazione, e forse anche a un dialogo che va oltre il mero linguaggio artistico.
 
Per Absorbing Modernity 1914-2014 saranno 65 i Paesi che sbarcheranno in laguna, 11 dei quali per la prima volta a Venezia e provenienti da tutti i continenti. Al debutto a Venezia le asiatiche Repubblica dell’Azerbaijan ed Emirati Arabi Uniti; le africane Costa d’Avorio, Kenya, Marocco e Repubblica del Mozambico; la Turchia; le australiane Indonesia e Nuova Zelanda; infine la centramericana Repubblica Dominicana. 
 
Leggermente diverso il caso del Costa Rica, già presente l’anno passato nel Padiglione America LatinaIila (Istituto Italo-Latino Americano) alla 55^ Esposizione Internazionale d’Arte, ma mai da sola prima d’ora. Un viaggio in tutto il globo dunque per far emergere anche nell’arte un linguaggio sempre più figlio di elementi diversificati, e non più mera espressione di un unico stile e /o mondo. 
 
Elements occuperà il Padiglione Centrale ai Giardini e come fa già capire il nome stesso, si concentrerà su tutti i singoli elementi che vanno a formare un’opera architettonica. 
 
Molto particolare Monditalia, situato invece all’Arsenale, i cui progetti interessano il Belpaese. Da Siracusa a Tortona, passando per L’Aquila, Siena e sconfinando oltre confine inclusa fermata sulle Alpi. Un’Italia (ribaltata) nella sua totalità locativa aperta anche agli altri linguaggi della Biennale di Venezia: cinema, teatro, musica e danza. 
 
Ulteriore fiore all’occhiello della manifestazione, gli eventi collaterali. In primis, Biennale Sessions con la possibilità di organizzare seminari in uno spazio messo a disposizione gratuitamente dalla Biennale, rivolto a Università, Accademie di Belle Arti, istituzioni di ricerca e formazione nel settore dell’architettura delle arti visive e nei campi affini. Spazio infine a Meetings on Architecture, un mondo di conferenze, workshop, spettacoli e dibattiti correlato con Monditalia, dove  si segnala nel mese di ottobre il 3° Convegno Internazionale “Archivi e Mostre”.
 

Se anche i musei italiani imparano l’arte dei selfies per promuoversi

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Musei italiani, selfies, italian culture, italian heritage, italian american, italian news, italian traditions
Logo di Museum Week 2014
Barbara Minafra
March 27, 2014

 

Tutto in 140 caratteri. Twitter insegna il prezioso dono della sintesi ma è davvero impresa ardua far stare l’immenso patrimonio artistico italiano in uno spazio così ridotto. Tuttavia è anche vero quanto disse Oscar Wilde: non importa che se ne parli bene o male, l’importante è che se ne parli.
 
Twitter ha lanciato la prima #MuseumWeek, una settimana dedicata ai musei d’Europa. 
Per sette giorni e fino al 30 marzo, le istituzioni culturali italiane, insieme a quelle spagnole, francesi e inglesi, animeranno sul social network un dialogo virtuale per costruire una sconfinata community on line che parla d’arte, di mostre, allestimenti, cataloghi, istallazioni, di tesori del passato e del presente, della bellezza che impreziosisce da secoli il nostro Belpaese.  
 
 
Twitter è un potentissimo strumento di propagazione dell’informazione. Potrebbe diventare un canale privilegiato per educare i giovani alla conoscenza e al rispetto del patrimonio culturale nazionale, per esportare all’estero il cuore dell’identità italiana e attrarre turisti anche negli scrigni meno conosciuti. Solo informandoli li si può far arrivare a Ferrara, Verona o Mantova e non solo a Venezia, ad Assisi o Perugia e non solo a Roma, a Palermo o Lecce e non solo a Napoli. Per non parlare di un elenco lunghissimo di borghi minuscoli ma incantevoli e purtroppo misconosciuti ai più. 
 
Il valore aggiunto di far sbarcare questo argomento su Twitter, dà la possibilità di ascoltare storie, idee e riflessioni, di essere solleticati dalla curiosità di vedere ciò di cui si sta leggendo, di cui altri parlano.
Negli Usa è già routine: si passa dai tweet del Moma a quelli del Guggenheim di New York. Ogni mezz’ora arrivano 140 caratteri che stuzzicano l’appetito. In molti Paesi si sfruttano i cinguettii per tenere in vita cinema, teatri e circoli culturali. 
 
Insomma, perchè non sfruttare la moda-mania di farsi selfies per promuovere l’arte e i musei italiani? Partecipate e usate il nostro indirizzo: @Italo_Americano.

La lezione antimafia del magistrato siciliano Rocco Chinnici: legalità e giustizia a costo della vita

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Magistrato siciliano Rocco Chinnici, antimafia, legalità e giustizia, cultura italiana
Caterina Chinnici, magistrato e autrice di “È lieve il tuo bacio sulla fronte”
Giovanni Zambito
April 1, 2014

 

Al “Kaos festival dell'editoria, della legalità e dell'identità siciliana” di Montallegro (Agrigento) il magistrato Caterina Chinnici ha ricevuto il premio “Gesti e Parole di legalità” per il libro che racconta la storia e gli insegnamenti del padre ucciso dalla mafia. 
 
Intitolato “È lieve il tuo bacio sulla fronte” e pubblicato da Mondadori (pagg. 144, € 16,50), racconta di quel tragico 29 luglio 1983 in cui la mafia fece esplodere in via Federico Pipitone a Palermo l’autobomba che uccise il giudice Rocco Chinnici, gli uomini della sua scorta e il portiere del palazzo dove il magistrato viveva insieme alla moglie e ai figli. 
 
Il giudice Chinnici viene ricordato come “l’innovatore e precursore dei tempi, che aveva intuito che, per contrastare efficacemente il fenomeno mafioso, era necessario riunire differenti filoni di indagine, comporre tutte le informazioni e le conoscenze che ne derivavano. Per farlo, riunì sotto la sua guida un gruppo di giudici istruttori: Paolo Borsellino, Giovanni Falcone e Giuseppe Di Lello. L'anno dopo la sua morte il gruppo prenderà il nome di pool antimafia”. 
  Rocco Chinnici è stato un magistrato italiano, vittima di mafia
 
Dopo tanti anni di silenzio, Caterina Chinnici, la figlia primogenita - a sua volta magistrato impegnato nella lotta alla mafia - ha scelto di ricordare il sacrificio del padre raccontando i momenti di vita familiare e spiegando come lei, i suoi fratelli e la madre abbiano imparato nuovamente a vivere dopo la strage e siano riusciti a decidere di perdonare, “l'unico modo per sentirsi degni del messaggio altissimo di un padre e un marito molto amato”. 
 
In che maniera ha permesso al dolore di sedimentare dentro di lei accettandolo come condizione sempre presente?
La consapevolezza che mio padre viveva il suo lavoro di magistrato come un impegno di vita volto ad affermare i valori di legalità e giustizia e che non si sarebbe tirato indietro rispetto al rischio di sacrificare la propria vita, come purtroppo è avvenuto, ha portato me ed i miei familiari ad accettare il dolore determinato dalla sua morte così drammatica fino a considerare il dolore un compagno di vita che nel tempo si è trasformato in una grande forza.
 
La scrittura del libro che effetto ha sortito sul suo dolore?
Scrivere il libro mi ha portato a rivivere i diversi momenti della vita della nostra famiglia: dalla felicità, dalla serenità al dolore, attraversandone tutte le diverse fasi. Non è stato facile.
 
Bello ed evocativo il titolo: è il ricordo di un momento che lei ha fermato e cristallizzato?
Quel bacio lieve, appena accennato, sulla fronte era il saluto che papà ci dava anche da grandi; con quel gesto ci trasmetteva la sensazione rassicurante della sua presenza nella nostra vita.
 
Che ritratto viene fuori di Rocco Chinnici padre?
Rocco Chinnici è stato un padre affettuoso. Si prendeva cura di noi quando eravamo piccoli, fino ad arrivare ad inventare le favolette per tenerci buoni, ed ha continuato ad essere sempre presente nel nostro percorso di crescita nonostante il suo lavoro lo impegnasse per l'intera giornata. Ha saputo fare sentire ciascuno di noi figli amato in modo unico e speciale.
 
E come magistrato?
Rocco Chinnici è stato un magistrato di grande spessore professionale. Nel suo lavoro è stato un precursore. La conoscenza approfondita del fenomeno ma-fioso, maturata attraverso le sue indagini, lo ha portato a segnare un profondo cambiamento nella cultura giudiziaria, ad innovare la metodologia delle indagini attraverso la creazione di quello che dopo la sua morte si sarebbe chiamato "il pool antimafia", a comprendere la necessità delle indagini sui patrimoni costituiti illecitamente avviando le prime indagini bancarie ed infine a sollecitare il cambiamento culturale portando soprattutto ai giovani testimonianza del suo lavoro e del valore della legalità.
 
Nel suo lavoro quale insegnamento tiene sempre presente?
Quello che ritengo sia il più importante insegnamento che mio padre con il suo esempio mi ha trasmesso: coniugare sempre il giusto rigore nell'applicazione della legge con la necessaria attenzione all'umanità della persona sulla cui vita la decisione del giudice va ad incidere e talvolta profondamente.
 
Che cosa manca secondo lei affinché il nostro Paese alzi la testa contro la mafia?
Dalla morte di mio padre ad oggi molto lavoro è stato fatto per far cambiare la cultura, ma si tratta di un percorso non ancora compiuto: occorre ancora lavorare per il cambiamento culturale in tutti i contesti, per affermare un'etica pubblica fondata sul principio di legalità e per creare, al tempo stesso, le condizioni per lo sviluppo socio-economico in tutte le aree del nostro Paese.
 
Un commento al premio del Kaos Festival.
È un premio per me particolarmente significativo perché contiene in sè tutti i valori che hanno guidato l'impegno di mio padre e che sono fondamento di sviluppo e di crescita sociale: la cultura, la legalità e l'identità, l'identità siciliana, cioè le nostre radici, la nostra memoria, la nostra storia.

 

Hemingway, il ragazzo del basso Piave. Una mostra lo celebra a Monastier di Treviso

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Hemingway e il Basso Piave in mostra fino a maggio 2015 nel Trevigiano
Nicoletta Curradi
April 2, 2014

 

Le terre del Piave hanno affascinato Ernest Hemingway e ne hanno ispirato la poetica. Tra le province di Treviso e Venezia, il grande scrittore americano ha incontrato persone, conosciuto luoghi e assaporato gusti che hanno segnato la sua vita e ispirato la sua arte letteraria. 
 
La mostra “Hemingway + Pia-ve: le origini di una poetica”  allestita a Monastier (Treviso), racconterà di queste persone, luoghi e gusti attraverso un percorso fotografico. 
 
La mostra parte dalla constatazione di quanto i luoghi siano importanti nell’opera dello scrittore e nella costruzione della sua poetica. In quest’ottica, il percorso espositivo può contribuire a tramandare la memoria di ciò che è stata la Grande Guerra a Monastier e nel Basso Piave, a beneficio sia degli abitanti della zona sia di chi arriva come turista.
 
La mostra permette di ricordare la presenza in questi luoghi di Ernest Hemingway, uno dei massimi scrittori del Novecento, che nel Basso Piave, in particolare tra Fornaci, San Pietro Novello e Fossalta, ha operato come membro della American Red Cross ed è stato ferito. Desiderando assistere alla guerra da vicino, fece domanda per essere trasferito. Fu mandato sulla riva del basso Piave come assistente di trincea, con il compito di distribuire generi di conforto ai soldati, recandosi quotidianamente alle prime linee in bicicletta. 
 
Nella notte tra l'8 e il 9 luglio, nel pieno delle sue mansioni, venne colpito dalle schegge dell'esplosione di una bombarda austriaca pesante Minenwerfer. Cercò di mettere in salvo i feriti ma, mentre stava recandosi al Comando con un ferito in spalla, fu colpito alla gamba destra da proiettili di mitragliatrice che gli penetrarono nel piede e in una rotula.
 
Quella di Hemingway, avventure belliche a parte, fu comunque una presenza continua e non episodica, che merita di essere approfondita.
 
La mostra contribuisce inoltre alla valorizzazione del territorio con le sue bellezze paesaggistiche, storiche ed architettoniche, i suoi prodotti tipici come il vino, in particolare il Raboso del Piave tra i preferiti di Hemingway, stimolandone una duplice conoscenza: letteraria, all’interno delle opere di Hemingway, e turistica tramite la visita personale ai luoghi teatro delle operazioni belliche che Hemingway ha trasferito nelle sue opere con straordinaria abilità. 
 
Nel percorso espositivo fotografico ci sarà un angolo sensoriale dedicato alla presentazione dei Vini Venezia e alla degustazione del Raboso del Piave. La mostra resterà aperta fino al 24 maggio 2015. 
 

Italia che vai America che trovi, lo ‘spazio’ misura la differenza

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Italia e America, italian culture, italian heritage, italian american, italian news, italian traditions
Guido Piovene in “De America” ha descritto gli americani e le loro città
Barbara Minafra
April 10, 2014

 

La sua fu una “coast to coast” d’autore. Negli anni 1950-’51 Guido Piovene, scrittore e giornalista del Corriere della Sera, percorse gli Stati Uniti in macchina per raccontare vita, paesaggi e società di un Paese che affascinava l’Italia e gli italiani. Una terra del benessere dove migravano, anche solo nel desiderio di fuga, migliaia di compaesani in cerca di fortuna.
 
Nel suo grande reportage “De America” descrive gli americani e le loro città. 
 
Los Angeles, ad esempio, è “nebulosa e centrifuga”, ha una dispersività esasperata per qualsiasi europeo, un tessuto urbano sconfinato e disorientante. Ha “qualche cosa di dispersivo, di astratto, di distaccato, entra nei sentimenti; vorrei aggiungere - scrive Piovene - che non è questo un valore soltanto negativo, come si ritiene in Europa. L’umore predominante è un misto di solidarietà umana generica ed universale”.
 
Per un italiano, ieri come oggi, arrivare in America è un’esperienza innanzitutto sensoriale: si è messi alla prova sugli spazi sconfinati, su vastità che in Italia non sono associate a città, a spazi abitativi, a comunità sociali di appartenenza. In una Penisola in cui, paese che vai dialetto che trovi, dove cioè è difficile identificarsi con il Comune a 5 km dal proprio, pensare di prendere una freeway per andare a mangiare una pizza con gli amici a 2-3 ore da casa, pur restando nella stessa città, è  inimmaginabile soprattutto se è considerato la normalità. 
 
Provano un’esperienza simile solo i romani considerato che la superficie urbana è la stessa di L.A. Ma la maggior parte degli italiani, su distanze simili, ha già attraversato un hinterland di paesi, cittadine e municipi diversi dal proprio. Lo sanno bene milanesi, fiorentini o napoletani.
 
Nessun italiano però, percorre miglia e miglia senza incontrare per ore città, luci e abitazioni, come succede normalmente in California. Lo spazio, in America, ha una dimensione diversa e per chi emigra è una scoperta.

Antologica di Staino a Siena: satira e sogni in punta di matita e acquerello

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Antologica di Staino a Siena, satira e sogni, italian culture, italian heritage, italian american, italian news, italian traditions
Sergio Staino
Fabrizio Del Bimbo
April 15, 2014

 

Fino al 3 novembre è aperta al pubblico, nelle sale del Santa Maria della Scala in Siena, la prima rassegna “antologica” di Sergio Staino. 
 
Nell’esposizione, dall'emblematico titolo “Satira e Sogni”, che evoca le due attitudini principali che hanno da sempre caratterizzato il lavoro dell'artista, si potranno ammirare gli acquarelli e le più recenti opere digitali che hanno reso Sergio Staino uno tra i maggiori protagonisti della satira in Italia. 
 
Sono esposte in mostra oltre trecento opere, dalle prime strisce di Bobo per Linus, che risalgono ai primi anni Settanta, fino alle più recenti creazioni in digitale.
 
 
Intorno all'anno 2000 l'artista ha dovuto abbandonare per motivi di eccessivo degrado della vista il disegno tradizionale fatto a punta di matita o di penna a china, per spostarsi obbligatoriamente sul digitale.
 
La mostra dunque segue questo passaggio: dai primi disegni nati su Linus nel ’79 agli appassionati interventi su l’Unità, e poi il cinema e quello che ha significato nell’evoluzione del suo disegno, fino alle ultime opere disegnate a mano e acquerellate in grigio prima dell’addio definitivo e il passaggio al digitale. 
 
Mescolati tra loro temi politici, dispute familiari, disegni per bambini o di puro gioco, tutti segnati e contraddistinti, da un segno e da una fantasia che, al di là delle tante tecniche usate, rimangono completamente sue.
 
Nella mostra si entra attraverso un arco trionfale, sormontato da un Bobo-Rodin pensatore e  subito ci si imbatterà in una sorta di Pantheon dei nostri giorni: grandi sagome dei personaggi che hanno animato gli ultimi trenta tormentati anni della no-stra vita politica e istituzionale. 
 
Nelle prime sale troveranno spazio le memorabili storie degli anni di Linus (Capitan Kid, Moskava, Senza famiglia) e de l'Unità (I funerali di Belinguer, Livorno 1921, A proposito di Arbasino ). Sono gli anni dei disegni a penna, dell'uso della china e dei pennarelli. La mostra, fortemente voluta dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Siena e organizzata da Opera Civita Group, sarà parte integrante dei sette percorsi museali del Santa Maria della Scala.
 

Dalla Liberazione del 25 Aprile agli italoamericani nati in Italia

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Liberazione, 25 Aprile, italoamericani in Italia, italian culture, italian heritage, italian american, italian news, italian traditions
Una celebre foto scattata in occasione del giorno della Liberazione in Italia
Barbara Minafra
April 24, 2014

 

Che effetto fa, visto da lontano, da Oltreoceano, dalla parte di chi contribuì materialmente alla Liberazione d’Italia, il 25 Aprile?
 
La data segna simbolicamente il termine della II Guerra Mondiale, cinque anni di bombardamenti, fucilazioni, morte e violenze, la fine dell'occupazione del territorio italiano da parte della Germania nazista e del ventennio fascista.
 
Il 25 Aprile fu il giorno dell’insurrezione generale che portò alla liberazione di Milano e Torino. Ma Bologna era già stata liberata il 21 aprile, Genova il 23 mentre Venezia dovrà aspettare il 28. Entro il 1 maggio tutta l'Italia settentrionale fu liberata. Roma era già stata abbandonata dai tedeschi nel giugno del ‘44 in seguito all’avanzata delle truppe statunitensi che pochi giorni prima erano approdati sulle coste della cittadina di Anzio, Firenze nell’agosto dello stesso anno. Gli americani erano sbarcati in Sicilia, per poi risalire tutta la penisola, nel luglio del ‘43.
 
Simbolicamente l’anniversario, divenuto ufficialmente festa nazionale nel 1949, rappresenta l'inizio di un percorso storico che porterà prima al referendum del 2 giugno 1946 per la scelta fra monarchia e repubblica, quindi alla nascita della Repubblica Italiana, fino all’elezione dell’Assemblea Costituente e alla stesura della Costituzione che entrerà in vigore il 1 gennaio 1948.
 
Gli americani che tanta parte hanno avuto e hanno nella storia nazionale, diedero un contributo fondamentale a questa festa di cui oggi apprezziamo più la vacanza che non il significato storico.
 
Un’eredità che ancora oggi resta non solo nella memoria di coloro che vissero quella stagione di improvvisa libertà e di indicibile sofferenza dopo anni di dittatura e di sofferenza bellica, ma anche nel legame che da allora unisce, ancora più profondamente, l’Italia e gli Stati Uniti d’America.
 
Il merito fu anche degli italoamericani che caddero per la liberazione della patria dei propri avi, e ai figli che nacquero dall’unione dei soldati a stelle e strisce con le ragazze italiane. Anche loro, italoamericani finalmente liberi.
 

La poesia napoletana della tazzina di caffè

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Il caffè rappresenta uno dei tanti sapori della bella Napoli dove lo si offre a ogni evenienza ed è un'offesa rifiutarlo.
Francesco Buccaro
April 26, 2014

 

Il caffè è una delle bevande più consumate al mondo. In Europa Occidentale è presente da circa trecento anni. La sua prima comparsa in Italia fu a Venezia, nel 1570, per opera del medico padovano Prospero Alpino il quale, di ritorno dall'Oriente, portò con sé alcuni sacchi di caffè per far conoscere agli abitanti del luogo la nuova bevanda.
 
Da quel momento in poi il caffè ha subito una continua evoluzione nel tempo. Dal classico caffè espresso si passa a quello lungo o a quello corretto con aggiunte di grappa o liquori, oppure a quello macchiato, decaffeinato, schiumato, shakerato, fino ad arrivare a quello dal sapore di nocciola, cioccolato o limone. 
 
Dalle classiche caffetterie italiane, dove il caffè rappresenta un rito e viene piacevolmente degustato al bancone in compagnia di una simpatica chiacchierata col barista, si passa alle bevande da asporto americane frettolosamente sorseggiate per strada prima di recarsi a lavoro. Ma come viene degustato il caffè non ha importanza, ciò che conta è berlo in buona compagnia seguito da lunghe conversazioni; ciò rende una semplice tazza di caffè un mezzo di aggregazione sociale che accompagna, con gusto, il piacere di un incontro. 
 
 
Incomputabili sono gli amori, le amicizie, le conoscenze che nascono davanti una tazzina di caffè, complice di un pretesto per raccontarsi, di conoscersi mentre si degusta il suo aroma naturale. 
In Italia, offrire un caffè è sinonimo di ospitalità ed è un modo gentile per manifestare la propria accoglienza nei confronti di chi varca la soglia della nostra dimora. Quante sono le poesie, le canzoni, i film, che sono stati ispirati al famoso concentrato? 
 
Il caffè rappresenta uno dei tanti sapori della bella Napoli dove, per degustarlo si trova sempre una scusa, lo si offre a ogni evenienza ed è un'offesa rifiutarlo. La famosa tazzina di caffè accompagna da tempo illustri attori napoletani in alcune delle loro più celebri opere teatrali. 
 
Nella commedia "Questi fantasmi" (1945), Eduardo De Filippo, seduto sul balcone di casa, dà alcuni consigli ad un fantomatico professore su come preparare un buon caffè napoletano riconoscendo tali abitudini quotidiane come versi di una poesia di vita che, oltre ad esser un utile espediente per impiegare il tempo libero, conferiscono una serenità di spirito a chi lo prepara. 
 
La celebre tazzina compare anche nelle poesie e nelle canzoni di innumerevoli artisti partenopei che la ritraggono come uno dei tanti simboli di Napoli. Uno dei quali è Pino Daniele che, nel 1977, scrisse "Na tazzulella e cafè". Nella sua melodia, il cantante propone agli ascoltatori una canzone dal retrogusto amaro, evidenziando alcune problematiche della città e criticando alcuni politici che, invece di svolgere diligentemente il proprio lavoro, oziano... sorseggiando con spensieratezza il buon caffè. 
 
Altro artista napoletano che ha reso omaggio alla famosa tazzina napoletana è stato Roberto Murolo con "A' tazz e cafè" (scritta da Giuseppe Capaldo nel 1918 e accompagnata dalle note di Vittorio Fassone).
Nella sua interpretazione, l'autore propone una napoletanità unica servendo agli ascoltatori una melodia dal retrogusto dolce.
 
Nella sua canzone, "Briggeta" (Brigida), una donna scontrosa, ma al tempo stesso affascinante, lavora come cassiera in una caffetteria di Napoli assieme al poeta Capaldo, il quale, perdutamente innamorato della donna, le dedica alcuni versi romantici in attesa che anch'ella un giorno possa ricambiare i suoi sentimenti. Nella canzone, Capaldo paragona il carattere di Brigida al sapore amaro di una tazzina di caffè che un giorno diverrà dolce, quando, girando col cucchiaino lo zucchero nel fondo della tazzina, la donna si innamorerà di lui. 
 
Lo stesso paragone lo si potrebbe fare con Napoli che si presenta agli occhi di molti amara con un colorito scuro, ma che in fondo ha sapori unici che non tutti hanno il piacere di conoscere. Bisognerebbe "girare" molto la città come quel caffè, comprenderla e conoscerla bene, a fondo, prima di poter assaporare quel dolce che c'è. Solo in tal modo si scoprirà il vero sapore della città, intriso di arte, cultura, tradizioni. Fascino e mistero che troppo spesso rimane sul fondo di quel caffè.  

Un salto indietro nel tempo: al Celio si visitano sorprendenti case di epoca romana

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Straordinaria conservazione di un edificio di epoca romana al Celio
Emanuela Medoro
April 29, 2014

 

È passato più di un secolo da quando Germano di San Stani-slao, rettore della Basilica dei Ss. Giovanni e Paolo al Celio, incominciò a cercare la sepoltura dei due santi cui è dedicata la basilica. San Giovanni e Paolo furono ufficiali della corte imperiale, subirono il martirio e furono sepolti nella loro casa sul Celio nel IV secolo dopo Cristo, all’epoca dell’imperatore Giuliano l’Apostata. Qualcosa di ben diverso di una semplice sepoltura venne alla luce. 
 
Era il 1887, il padre passionista si trovò in una serie di vasti ambienti sotterranei, alcuni con pareti affrescate. Interventi condotti successivamente, nel 1913-14 e nel 1951, hanno riportato alla luce un intero complesso archeologico, una serie di trasformazioni e stratificazioni edilizie avvenute fra il II secolo e la fine del IV d.c., concluse con la costruzione della basilica soprastante, voluta dal senatore Pammachio, ultimo proprietario della domus dei Santissimi Giovanni e Paolo. Questo complesso residenziale dal 2002 è aperto alle visite del pubblico. 
 
Ho visitato questo luogo insieme ad un gruppo guidato da un’esperta archeologa dell’Art Club di Roma. Per raggiungere l’ingresso delle case romane, bisogna entrare nell’area archeologica del Celio, accanto al Colosseo, una zona di ampi spazi verdi, quieta e silenziosa. L’ingresso delle domus si trova nel Clivo di Scauro, uno straordinario esempio di coesistenza di stili architettonici classici, medievali e moderni, che termina nel piazzale antistante la basilica.
 
Subito dopo l’ingresso, si trova la pianta del complesso, necessaria per orientarsi nel luogo in cui ci si trova. Un intrigo di fabbricati: case, botteghe, negozi, strade, mura decorate, mura di fondamento della basilica soprastante, terme, ambienti di preghiera e sepolture. Tutto insieme costituisce un sorprendente labirinto sotterraneo, croce e delizia di archeologi, fonte inesauribile di ipotesi, interpretazioni, discussioni.
 
Il visitatore di un giorno, appassionato de “la grande bellezza” di Roma, eterna, misteriosa e impenetrabile, è stupito dall’aspetto più rilevante di questo intrico di tempo e spazio: la contiguità delle manifestazioni del passaggio dalla cultura pagana a quella cristiana.
 
 Ecco su una parete vicina all’ingresso una delle prime immagini della crocifissione del Cristo, visto dal basso in alto, il corpo appare come una semplice colonna scura con le braccia aperte, il capo appena inclinato circondato da un’aureola dorata. Molto simile l’immagine, poco più in là, dell’Orante, cioè dell’uomo in preghiera. 
 
Subito dopo, ecco decorazioni di un vivace color rosso pompeiano, con fregi geometrici o ispirati alla natura, flora, fauna e trascorrere delle stagioni. Ricordo soltanto, ad esempio delle tante decorazioni di cultura pagana, la Stanza dei Geni, con figure di giovani nudi ed alati, i Geni, collegate da ghirlande di fiori e frutti, uccelli descritti con cura, putti che vendemmiano.  
 
Per seguire questo percorso si cammina su pavimenti di mosaici diversi per qualità e fattura. Alcuni di essi sono composti da tessere policrome raffinate e minute ordinate in disegni geometrici, che dovevano essere lo chic della buona borghesia dell’epoca. Si calpestano anche grossi lastroni in pietra nelle stradine che separavano i palazzi.         
 
Tra le informazioni ricevute nel corso di questa visita, una mi ha colpita in particolare, come esempio della presenza degli antenati della Roma repubblicana o imperiale nella vita quotidiana odierna. 
 
Ho scoperto una forma di continuità con la Roma pagana nel tipo di progettazione e costruzione delle case del Celio, per proprietari o affittuari. I tecnici di allora realizzavano in mattoni palazzine di cinque piani con botteghe e piccoli laboratori a piano terra. Abito in un fabbricato di quattro piani in cemento armato, con ambienti commerciali a piano terra. Nihil novi sub solem: nulla di nuovo sotto il sole.

L’evento del secolo: quattro Papi in piazza San Pietro

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Il Papa emerito Benedetto XVI con Papa Francesco
Barbara Minafra
May 1, 2014

 

Nel 1962, nemmeno 48 ore dopo il radiomessaggio di Papa Roncalli, Washington riceve la proposta di Chrusčёv: le navi sovietiche con a bordo le testate nucleari pronte per Cuba torneranno indietro a patto di ritirare le testate atomiche americane dalla Turchia e dall’Italia.
 
Meno di 30 anni dopo, nel 1989 cade il muro di Berlino portandosi giù le prime pesanti macerie della divisione fredda tra Est e Ovest del mondo, dopo un attentato, 8 anni prima, contro Wojtyla che finiva per rafforzare il suo messaggio antitotalitarista.
 
Credenti o non credenti, è innegabile l’incisività storica di San Giovanni XXIII, il “Papa della docilità allo Spirito” e di San Giovanni Paolo II, il “Papa della famiglia” elevati alla santità da Papa Francesco che ha concelebrato la solenne cerimonia con il Papa emerito Benedetto XVI.
 
Nella giornata dei quattro Papi,  evento unico nella storia della cristianità, è stata proclamata la canonizzazione del secolo.
 
Di fronte a un milione di fedeli provenienti da tutto il mondo e ad altri due miliardi in mondovisione, è stato ufficializzato un sentimento che il popolo dei credenti nutriva da anni. Già ai funerali di Wojtyla, a pochi giorni dall’ultimo Angelus, muto e affaticato, che commosse il mondo, la folla lo invocava “santo subito”. Roncalli, il “Papa buono” fu considerato santo per la sua umanità, lui che “parlava con la gente” e che ai bambini, con uno struggente discorso alla Luna, chiedeva di portare una carezza.
 
Questi due Papi hanno avuto un ruolo prepotentemente internazionale. Ma entrambi hanno anche avuto un importante rapporto linguistico con l’italiano. 
 
Il Concilio Vaticano II avviato da Roncalli ha introdotto l’uso delle lingue nazionali al posto del latino nelle celebrazioni liturgiche affinchè si capisse esattamente il senso di quanto professato. Wojtyla invece, salendo al soglio pontificio e affacciandosi dalla Loggia di San Pietro, disse nel suo italiano ancora stentato quanto gli garantirà simpatia immediata e duratura: “Se sbaglio mi corrigerete”. 

Cibo simbolo dell’Italia di domani, non vecchio cliché

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Il cibo Italiano è unanimemente riconosciuto come il migliore al mondo
Barbara Minafra
May 9, 2014

 

Non è un semplice stereotipo diffuso all’estero ma, a quanto risulta da un sondaggio, un dato di fatto in cui gli italiani si ritrovano perfettamente. Quasi sei su dieci sostengono che sia l’industria alimentare a rappresentarci meglio.
 
Più della moda, più delle automobili di lusso, della creatività (che ci rende talenti preziosi più all’estero che in casa nostra, come l’inventore del motore di ricerca Bing, Lorenzo Thione, protagonista del nostro Focus) o del design. Nel mondo cioé, un italiano si riconoscerebbe per la buona cucina, i prodotti tipici enogastronomici che arricchiscono quotidianamente la tavola e la qualità oltre che la varietà del mangiare bene. 
 
La conferma del sondaggio starebbe anche in un altro risultato: l’Italia è nel podio dei 50 best restaurants al mondo, una specie di premio Oscar della cucina che va agli chef d’elité.
 
Senza contare la conferma che viene dalla fiducia dei consumatori: 7 su 10 scelgono l’alimentare italiano e in dieci anni la fiducia percepita verso i controlli fatti dalle aziende alimentari sui cibi arriva al 65%. Quel che frena i consumi interni da un lato e gli investimenti industriali dall’altro, sarebbe solo la crisi intesa come scarsa liquidità.
 
La percezione dell'industria alimentare come primo e vero simbolo del made in Italy è non solo un coerente biglietto da visita di un Paese che si prepara ad ospitare l’Expo 2015 (in Dall’Italia il via al countdown dei 365 giorni all’evento) dedicato al cibo e alla sicurezza alimentare che si definisce nello slogan “nutrire il paese, energia per la vita”. Ma è un ritratto fedele dell’Italia di oggi.
 
Allora l’Italia è ancora “pizza, spaghetti e mandolino”? Se si considera che sono due alimenti comuni e frequentissimi nell’alimentazione tricolore c’è ben poco del luogo comune e tanto della realtà quotidiana.
 
Il punto è che bisogna andare ben al di là del clichè per capire che il cibo è parte costituente della cultura di un popolo, delle abitudini che diventano tradizioni, del bagaglio gustativo e olfattivo che ci fa prediligere certi sapori ovunque si vada.
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